Social network e testate online: il diffamato preferisce l’”oblio” alla querela

di Redazione TecnoGazzetta

C’è un confine molto sottile che separa informazione e diffamazione a mezzo social network, media e magazine online. Di questo tema si è discusso nella rubrica “Dialoghi Penali” ideata dal Presidente del Centro Studi Borgogna, l’avvocato Fabrizio Ventimiglia.

La diffusione di notizie a mezzo social è molto più rapida e molto meno tutelata rispetto a quella della carta stampata e l’avvento delle nuove tecnologie ha reso ancor più necessario un corretto bilanciamento tra il diritto e il dovere di informazione e la fattispecie di reato prevista e punita ai sensi dell’art. 595 del codice penale. L’emergenza pandemica che stiamo vivendo ormai da un anno ha inoltre ingigantito il problema.

La connessione ad internet e l’utilizzo dei social network è diventata una necessità primaria. L’unica occasione, in un momento di restrizioni, di contatto con l’esterno. L’eccessiva digitalizzazione della società però ha facilitato la diffusione delle condotte illecite, i cyber crimes, tra cui la diffamazione online.

L’attenzione si focalizzata sulla diffamazione nell’ambito della cronaca giudiziaria dove i valori in gioco sono altissimi, soprattutto sotto il profilo reputazionale. In questo contesto è forse la limitata conoscenza dei rimedi ad un ingiustificato attacco a mezzo web alla propria reputazione, ad avere in un certo senso, favorito la proliferazione di condotte illecite che hanno dato origine anche ad altri noti fenomeni quali il body shaming ed il revenge porn. Nell’ultimo anno l’utilizzo dei social e delle piattaforme digitali ha invaso la nostra quotidianità ma appare emblematico come soltanto una minima parte delle condotte illecite sia stata denunciata alle Autorità e come, di conseguenza, sia davvero esiguo il numero di cause ad oggi definite.

“Internet2” di Fabio Lanari – Internet1.jpg by Rock1997 modified.. Con licenza GFDL tramite Wikimedia Commons

Questi i dati relativi all’ultimo anno: 11 sentenze emesse in primo grado, 8 sentenze pronunciate in secondo grado, 1 sentenza pronunciata dalla Suprema Corte di Cassazione. Ma se verifichiamo i numeri delle richieste inoltrate alle piattaforme create ad hoc dai motori di ricerca – solo google.com segnala poco più di 5 milioni di richieste inoltrate – per ottenere la deindicizzazione delle notizie diffamatorie pubblicate sul web, qualcosa non torna. Appare chiaro che la richiesta di cancellazione superi di gran lunga la strada del ricorso giurisdizionale, vantando tempi di reazione notevolmente più celeri.

“Al fine di tutelare la propria reputazione – spiega il Presidente del Centro Studi Borgogna, Fabrizio Ventimiglia il soggetto leso può rivolgersi alle Autorità Giudiziarie. Puo’ anche scegliere di tutelare la propria immagine, esercitando il diritto all’oblio (ex art. 17 GDPR) sulle apposite piattaforme web mediante le quali è possibile richiedere la deindicizzazione delle notizie. Nel caso in cui scegliesse la via legale dovrà entro tre mesi, dal momento in cui si viene a conoscenza dei fatti ritenuti lesivi, sporgere querela. Il lasso temporale – continua l’avvocato Ventimiglia – entro cui esercitare tale azione è tuttavia piuttosto ristretto, rendendo necessaria un’azione tempestiva da parte del soggetto leso. Anche per questi motivi le vittime di diffamazione preferiscono richiedere la cancellazione alle piattaforme web”.

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